Renata Bonfanti (Bassano del Grappa, 1929-2018) è protagonista assoluta, nel panorama italiano, di un cambiamento radicale nel modo di pensare e fare tessitura, assimilando, nel corso di perfezionamento con Else Halling alla Kvinnelige Industriskole di Oslo, il nuovo concetto di textile designer. Al rientro in Italia avvia la sua produzione e già la rivista «Domus», nel 1955, pubblica il suo lavoro che viene accostato, per somiglianze linguistiche, all’opera di artiste finlandesi come Eva Brummer e Kirsti Ilvessalo. Il suo modo di procedere intercetta la ricerca di quegli anni e non è un caso che siano proprio Gio’ Ponti e Bruno Munari a collaborare con lei in questa intersecazione tra sapere artigianale, sperimentazione linguistica e tecnologica, riconosciuta, per la sua qualità, da istituzioni come La Biennale di Venezia e La Triennale di Milano, che la ospitano a più riprese tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Non mancano mostre personali alla Galleria Danese di Milano nel 1959 e nel 1961 e premi, come il prestigioso Compasso d’Oro, nel 1962. La sua fama valica i confini nazionali ed è infatti presente nella mostra Contemporary Italian Art a Oslo, Stoccolma e Copenaghen nel 1961 oltre che a rassegne promosse dalla rivista «Domus» negli Stati Uniti. L’opera in mostra, Algeria 4, è concepita proprio in quegli anni. Ciò che la caratterizza, a differenza dei precedenti tappeti annodati con fili fluttuanti, dal disegno fluido e irregolare, è un’astrazione più geometrica, capace di suggerire i silenzi dei deserti e i vuoti cari al concetto giapponese di ma, inteso come spazio, pausa. Coerentemente con la scelta di conservare un procedimento manuale (per cui ogni pezzo richiede anche quattro settimane di lavorazione) è già prevista la possibilità di varianti in fase esecutiva tali da rendere ogni manufatto differente l’uno dall’altro; lo attesta questa riedizione del 2022 su suo disegno del 1968 che, pur aderente al progetto iniziale, reca il segno delle minime varianti possibili. In questo si vede tradotta l’idea di fondo di un artigianato industrializzato e di una produzione industriale umanizzata: la profonda coerenza tra arte e tecnica è ben evidenziata da una lettura attenta e precisa che Bruno Munari ha riservato al suo lavoro in uno scritto del 1969: egli individua l’ordito come lo spazio della programmazione e la trama come quello della variazione; in questo modo, «grazie a questa libertà ritrovata, ogni disegno che la tessitrice compone è la traduzione grafica di uno stato d’animo in quel momento» (picciau 2015, p.78). La completa padronanza delle tecniche si fonde sempre con la conoscenza sia delle culture antiche sia della ricerca contemporanea così da giustificare il titolo dato al manuale Creatività nella tessitura (Bonfanti, 1982). Tra le mostre personali più recenti quella del 1997, Wandteppiche, al Textilmuseum di San Gallo (Svizzera), al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano (2000), alla Biblioteca Nazionale di Potenza (2011). (g.a.)

Bibliografia essenziale: picciau 2015; bonfanti 1982; romanelli 2021.